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Noi altri. Gli "arrusi" catanesi nell’Italia fascista

di , womeninthecity.articolo21.com, 28 marzo 2008

«A Catania, Filippo e Salvatore conducono vita appartata per qualche mese. Quando li arresteranno, sembreranno presi alla sprovvista.

Nessuno immaginava, nessuno poteva sapere. E anche sospettare l’arresto: che si poteva fare? Si poteva scappare? E dove? E da chi?

Così, mentre la polizia li osserva da lontano, loro continuano con lo chiffon, i balli a piazza Sant’Antonio, e gli appuntamenti all’arvulu russu, sotto le poche luci di piazza Alcalà, davanti al buio che è tutto mare, tutto mare, e respira».

da La città e l’isola di Gianfranco Goretti e Tommaso Giartosio, Donzelli editore 2006.


Già prima del Ventennio fascista, il confino di polizia puniva cittadini che non rientravano nella norma politica e sociale, incisa «nel silenzio della legge» eppure presente nell’opinione pubblica, che colpiva la semplice presunzione di «diversità». Con il fascismo la tendenza si accentua, in linea con la concezione di stato «etico e familistico» propugnata da Mussolini, e via via si inferocisce con una progressiva e totale adesione a una legislazione totalitaria e omofoba.

La Commissione provinciale per i provvedimenti di polizia sorvegliava tanto gli atti contrari alla pubblica moralità, quanto le ingiurie al duce e le canzoni antifasciste. Bastava anche una sola denuncia anonima per far sì che essa si mettesse all’opera, spesso all’insaputa dello stesso imputato. Seguiva il fermo, il carcere e infine l’invio dei condannati in una colonia di confino (una piccola isola o una località sperduta delle Alpi o del Meridione).

Di molti di loro, antifascisti e oppositori politici, si conoscono il nome e le storie. Di tanti altri, s’è persa la memoria. La loro colpa era quella di amare e desiderare altri uomini. Pochissimi di loro, a distanza di decenni, hanno accettato di ricordare.

Questa la cornice in cui Gianfranco Goretti e Tommaso Giartosio – l’uno insegnante nelle scuole superiori, l’altro narratore e saggista – inquadrano le ricerche compiute (a partire da testimonianze e da fonti d’archivio) sulla storia, le storie, dei «arrusi» di Catania. Decine e decine di giovani, e meno giovani, omosessuali che il fascismo inviò al confino nell’arcipelago delle Tremiti, sull’isola di San Domino, solo perché tali, cioè arrusi.

Un numero così elevato, da far di Catania la città «omosessuale» più sotto tiro del Ventennio, la più colpita dalla repressione fascista ossessivamente tesa a sostenere il modello virile stile duce, e a colpire qualunque attentato «all’integrità della stirpe».

Rivive attraverso le pagine del saggio di Goretti e Giartosio, una Catania sconosciuta, di cui si è persa totalmente memoria: le sale da ballo per soli uomini, gli appuntamenti sulla spiaggia di notte, le complicità, le rivalità, i travestimenti, gli espedienti, la paura, l’amore. E poi i pedinamenti della Milizia, gli arresti, gli stratagemmi e le suppliche messi in atto dalle famiglie per «nascondere» il fatto, le loro lettere al duce, i tentativi dei confinati, quasi sempre vani, di rivendicare «un’innocenza» per guadagnarsi la libertà.

Questa Catania di amori nascosti e sotterranei, scrutata ossessivamente dal più intransigente e ossessionato persecutore di omosessuali di tutto il periodo fascista, il questore Alfonso Molina, che di suo pugno firmò centinaia di confini, è la stessa Catania che alla fine della seconda guerra mondiale avrebbe rimosso completamente la memoria degli arrusi, edificando sulla loro pelle il mito della maschia virilità etnea, dai bell’antonio ai picciotti, l’unico in cui dovesse (e potesse) riconoscersi l’immaginario cittadino.

Quanti, infatti, ancora oggi a Catania si ricordano della loro vicenda? Quanti conoscono la storia degli arrusi? Praticamente nessuno. Nemmeno nelle associazioni di cultura omosessuale. Eppure, le tante storie umane che il saggio di Goretti e Giartosio ricostruisce, meriterebbero una collocazione di memoria almeno rispettosa delle sofferenze che procurò quella feroce discriminazione, nel periodo oscurantista chiamato fascismo.

Per comprendere un contesto storico e politico

Per capire meglio la situazione che si era creata a Catania facciamo un passo indietro. Nell’Italia dell’Otto-Novecento la repressione dell’omosessualità non poggiava su norme penali esplicite. Il Codice Napoleonico del 1804 – su cui si modellò il codice del Regno d’Italia del 1810 – depenalizzava l’omosessualità. Anche dopo il congresso di Vienna, i governi della Restaurazione conservarono questo indirizzo giuridico, limitandosi a ritoccarlo o a promulgare nuovi codici comunque ad esso ispirati. L’omosessualità non era «reato» in quasi tutti i paesi cattolici già parte dell’Impero.

Perché ciò che non si dice, lo sapevano bene i legislatori, non esiste. Dunque, un articolo specifico contro l’omosessualità non poteva esserci perché l’omosessualità, semplicemente, non doveva proprio esistere.

Faceva eccezione il Regno di Sardegna dove, tanto il codice del 1839 che quello del 1859, punivano in generale gli atti di «libidine contro natura».

Al momento dell’unificazione, il codice del 1859 venne esteso alle province meridionali, ma non l’articolo sul contro natura che fu abolito per le sole regioni del Meridione. Ciò vuol dire che sino al 1889, anno in cui entrò in vigore il codice penale Zanardelli, le persone omosessuali potevano essere incriminate a Milano o Torino, ma non a Napoli o Palermo. Con Giuseppe Zanardelli si depenalizzarono gli atti omosessuali in tutta Italia, dunque anche a Nord.

La rotta cambia con il fascismo che invade il campo della morale privata, e si inventa misure repressive, dirette ed esplicite, contro gli omosessuali. Due, le argomentazioni che si intrecciavano: da un lato, la volontà di edificare uno Stato totalitario basato sulla retorica della «pulizia e ordine morale», con punizioni esemplari per i trasgressori; dall’altro, qualla di chiudere gli occhi, sostenere la «rarità del vizio in Italia», far leva sulla complicità delle vittime che avrebbero fatto di tutto per celare le sanzioni che subivano (complice la Chiesa, più stretta al regime fascista dopo i Patti lateranensi del 1929), e comminare la diffida, l’ammonizione o il confino di polizia. Cioè, sanzioni amministrative volte alla prevenzione dei reati.

Dalla diffida di polizia al confino

La diffida era un richiamo ufficiale da parte della questura, e precedeva la denuncia al prefetto. L’ammonizione serviva anche a controllare i movimenti del denunciato, che per due anni doveva notificare in questura ogni spostamento e uscire e rincasare entro un orario prestabilito.

Vietato frequentare abitualmente locali pubblici e prendere parte a pubbliche riunioni. L’inosservanza era punita con l’arresto da tre mesi a un anno. Ad assegnare l’ammonizione era una commissione provinciale presieduta dal prefetto e composta dal procuratore del re, dal questore, dal comandante dei Carabinieri della provincia, e da un ufficiale superiore della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale. I cinque uomini lavoravano nell’ombra e l’interessato veniva informato solo quando riceveva l’avviso di comparizione.

La stessa commissione impartiva il confino di polizia, ovvero l’obbligo di risiedere stabilmente in una colonia, oppure in un comune diverso da quello di residenza, per un periodo che andava da uno a cinque anni.

Chi si vedeva assegnare il confino poteva, entro dieci giorni, presentare ricorso al Ministero dell’Interno. I ricorsi però, ci spiegano Giartosio e Goretti, venivano puntualmente respinti.

Il questore Molina a Catania, gli arrusi nei rapporti di polizia

Il profilo del questore Alfonso Molina è associato alle definizioni che egli utilizzò nei rapporti per reprimere gli arrusi. Nei loro confronti, valevano quelle normalmente riferite alle donne. Ma ovviamente, Molina non riconosce agli arrusi doti «femminili» come la cura o la sensibilità. Dunque, la categorizzazione non riguarda la madre, la moglie, ma piuttosto la donna di strada, la prostituta, una donna che occupa indebitamente lo spazio maschile della strada, e lo fa nel caso dell’arrusu perché quella donna è un uomo.

Nella sua mentalità, lo si evince dai rapporti, accade però qualcosa di strano e conturbante. Quasi tutti i ragazzi arrusi, dicevamo, vengono descritti come prostitute. Se giovani e belli, secondo lui, servono da «richiamo». Se anziani, sono «ex prostitute divenute mezzane o lenoni».

In entrambi i casi, il questore sottolinea comunque che essi «offrono la merce» ai loro amanti definiti «avventori». Le sale da ballo sono “Borse” per «la quotazione del valore dei pederasti».

Ma tra gli arrusi di vera e propria prostituzione ce n’era pochissima. E a un certo punto, anche Molina deve riconoscerlo. Cambia rotta, ma non definizioni. Gli arrusi sono prostitute che non fanno l’amore «per pagamento» ma «per passione»: insomma, si offrono, sono disponibili.

Il questore preferisce avere a che fare con casi esemplari, e facilmente leggibili, di passività conclamata, cioè di persone che nel rapporto sessuale hanno un ruolo ricettivo, cosa che gli serve a conferma delle sue tesi. Ma la sua mappa della sessualità (maschio/attivo, femmina/passivo) presenta paradossi, contraddizioni, ed entra ben presto in crisi. Davanti ad Angelo, ventisei anni, impiegato, Molina si dilunga sul suo «corpo giovanile» e sulle sue «fattezze perfette e regolari», che fanno sì che egli venga usato come «richiamo» da molti «pederasti» e soprattutto da un certo Ercole «più fortunato di tutti».

Goretti e Giartosio suppongono, in via ipotetica, che questo linguaggio in parte ironico ma comunque inconsueto, tradisca il fatto che il «richiamo» stia agendo anche su Molina. Un’attrazione ideologicamente problematica: come potrebbe egli desiderare un arrusu, e contestualmente sentirsi del tutto incontaminato, completamente «maschio»? A livello profondo, secondo i nostri due autori, i dati e quelle parole dicono che sì, potrebbe. A patto che l’arrusu sia un «passivo» che di maschile non abbia alcunché. Soltanto in questo modo si legittima la virilità degli uomini che ne sono attratti.

In agguato, per il questore, c’è però un’altra situazione “imbarazzante”, quella creata da cinque arrusi che hanno moglie e figli. Il dato lo costringe ad ammettere che costoro sono, o sono stati, anche «attivi»: quindi pericolosamente trasversali.

L’Italia fascista dal carcere di Catania

Nel carcere di Catania, quasi tutti gli arrusi passavano gran parte del tempo a concepire lettere. Scrivevano alle autorità richieste di proscioglimento, richieste di revisione del loro caso. Scrivevano quando era disponibile l’assistenza di uno scrivano, lo stesso per tutti, nell’arco di due o tre giorni. Le lettere erano affidate talvolta alla mano e alla mente di altri, e poi firmate con caratteri infantili.

Sono lettere spesso formali e conformiste, che tentano disperatamente di riabilitare l’autore e di guadagnarsi i favori dell’autorità che legge. Scrive soprattutto chi ritiene di avere delle credenziali da esibire. Ad esempio Agatino scrive che era stato cameriere alla tavola di Mussolini, mentre lo scultore Raimondo si lamenta dello spreco del talento di un artista fascista, riferendosi a se stesso. C’è chi, come Carmelo, manifesta l’ansia di essere privato dell’«onore ambitissimo di prestare il servizio militare».

Suppliche ai potenti, pentimenti spesso strumentali, accuse reciproche: reazioni comprensibili in persone che per mille motivi non hanno compiuto processi di maturazione politica.

Ma, documentano Giartosio e Goretti, ci sono anche lettere che lasciano affiorare una più profonda consapevolezza. Leonardo, ad esempio, ventenne, liceo classico, che dà lezioni private, vuole dare gli esami di maturità e poi iscriversi alla facoltà di Lettere. Il suo più ardente desiderio è continuare ad insegnare, e sembra profondamente segnato dalla sua educazione in un monastero benedettino. Ma sulla sua lettera si legge, scritto a matita blu, «Non si può. È pederasta».

Delle lettere che si scambiavano i confinati e i loro famigliari non è rimasto praticamente nulla: la questura non ne teneva copia. Una rarissima eccezione è rappresentata da un foglio scritto dalla madre di Giorgio, salernitano, che vorrebbe chiedere il trasferimento a un’altra colonia. La madre gli scrive, tra l’altro: «Perché vuoi cambiare isola, non ci sono gli altri come te? Se tu stai su questa isola vuol dire che è quella adatta per voi altri». Il tono è irritato, ma Giartosio e Goretti sottolineano un dettaglio significativo. La madre di Giorgio scrive «voi altri». Roberto, in un’altra lettera, è l’unico arrusu a scrivere «noi altri».

I nostri autori giungono pertanto alla conclusione che anche per i parenti, forse, il fatto che tutti gli arrusi venissero segregati in un luogo specifico ed esclusivo – un’isola – era un’occasione per riflettere su figli e fratelli, sul loro appartenere a un gruppo disprezzato e clandestino ma ben definito, dotato di esistenza autonoma.

Non solo arrusi: la storia di Francesca

In base al Testo unico del 1926, la prima persona in assoluto proposta per il confino politico a causa della sua omosessualità è una donna. Giartosio e Goretti hanno ricostruito la sua storia.

Nel primo anteguerra Francesca, nata nel 1889, vive a Perugia con il padre, un commerciante, e la madre. Sta a pigione da loro una maestra quarantenne, Gigliola. Il padre, violento, picchia spesso la madre, che muore presto a causa di una polmonite fulminante, e maltratta assai la figlia. Francesca però è aiutata da Gigliola che le fa un po’ da madre e un po’ da avvocata. Le due vanno a vivere insieme, e il padre furioso sparge la voce di un loro presunto lesbismo. Nel rapporto che fu redatto dai Carabinieri di Perugia, invece, le cose sono raccontate in modo diverso da quanto emerso dalla ricerca di Giartosio e Goretti: la maestra ha sedotto la ragazza, il padre ha cercato di separarle, Francesca gli ha fatto causa per pretesi maltrattamenti, lui si tira indietro per evitare lo scandalo, e a quel punto le donne vanno a vivere insieme.

Passano gli anni, Francesca lavora adesso come traduttrice presso un diplomatico inglese, poi in casa di un noto medico perugino sposato con un’altra inglese, Victoria: ventisei anni, più ricca del marito.

Nel novembre del 1927 Victoria lo abbandona e va a vivere in una sua villa di Forlì. Con lei c’è Francesca, che verrà accusata di lesbismo, e il 23 agosto del 1928 arrestata e destinata a tre anni di confino. Comincia la battaglia legale: il Ministero vuole un celere invio al confino; il medico chiede la separazione dalla moglie rinfacciandole la relazione con Francesca; alcuni cittadini scrivono lettere anonime sul suo vecchio rapporto con Gigliola («oggi lurida mezzana e pronuba di amori lesbici»). Sul fronte opposto, a negare il lesbismo di Francesca, ci sono il diplomatico inglese e l’avvocato di Victoria, che è anche il suo difensore. In carcere, a Rimini, Francesca si ammala di tumore uterino, ed è anche questa la ragione per cui le verrà concessa la revoca del confino.

Secondo la ricostruzione di Giartosio e Goretti, Francesca ha semplicemente pagato per le sue numerose scelte anomale rispetto al destino prefigurato all’epoca per una donna, piuttosto che per amore lesbico. Ovvero, la rottura col padre, la convivenza con Gigliola, il vivere del proprio lavoro, il non-matrimonio, la non-maternità. Emerge la doppia discriminazione. Tra un arrusu e una lesbica, è quest’ultima la più invisibile, dunque la più negata. L’arrusu infatti ha un’identità sociale: semipubblica, scandalosa, sottaciuta ma notoria. La lesbica, al contrario, ne è priva.

Mentre chi sostiene l’innocenza di Francesca è costretto a negare radicalmente il suo lesbismo, sul versante maschile quei pochi che difendevano gli arrusi ne ammettono spesso l’omosessualità.

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