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Quei 'Baci rubati' nell'Italia di Mussolini, in un doc gli amori omosessuali durante il fascismo

Sentimenti osteggiati, censurati, ma esistiti, vissuti e ricordati con fierezza nel film di Gabriella Romano e Fabrizio Laurenti, prodotto dall’Istituto Luce-Cinecittà, applaudito al 38° festival di Bellaria e in programma il 18 ottobre al Florence Queer Festival

di , Repubblica.it, 28 settembre 2020

“Questo rapido, felice battere del cuore, nessuno lo vede, solo tu Fla’ cara”. Gennaio 1941: Nietta Aprà, una storica dell’arte di 36 anni con “una grande, pazza voglia di vivere”, rivolge queste parole alla sua amata. “Caro e buon Valentino, nessun altro potrà mai illuminarmi come tu mi illuminasti. Ti bacio con tutto il mio amore” si legge in una lettera del pittore Ottone Rosai indirizzata a un suo giovane modello nel 1930.

Per la prima volta un docufilm rende visibile l’invisibile restituendoci i sentimenti degli uomini e delle donne omosessuali nell’Italia di Benito Mussolini. Le testimonianze raccolte da Gabriella Romano e Fabrizio Laurenti in Baci rubati. Amori omosessuali nell’Italia fascista sono un inno alla gioia di vivere nonostante la persecuzione del Ventennio. “L’intento – spiegano i registi e gli autori a Repubblica – è quello di celebrare il coraggio di chi ha affermato le proprie scelte di vita alla ricerca della felicità, nonostante l’azione repressiva della dittatura”.

Prodotto e distribuito da Istituto Luce-Cinecittà che proprio in quegli anni, ironia della sorte, era il più potente strumento di propaganda del regime, questo racconto fondamentale, necessario, giusto, applaudito al 38° festival di Bellaria e in programma il 18 ottobre al Florence Queer Festival, dà finalmente voce ai protagonisti che hanno “resistito” al regime amando nonostante potessero farlo solo in clandestinità, usando spesso parole in codice e incontrandosi in segreto.

Le immagini ufficiali dei cinegiornali Luce, le fotografie provenienti da collezioni private, le interviste radiofoniche ad alcuni sopravvissuti raccolte da Paolo Hutter e Gianni Rossi Barilli all’inizio degli anni Ottanta insieme ai brani di diari inediti, montati ad arte da Patrizia Penzo con le musiche di Ugo Laurenti, ricostruiscono le avventure, gli svaghi e gli affetti senza dimenticare ciò che forse è più noto, cioè l’ideale fascista di virilità e femminilità, gli internamenti in manicomio, le indagini dei commissari, le dichiarazioni dei prefetti, le ammonizioni, gli arresti e il confino, le violenze degli squadristi, quella mascolinità tossica che arriva fino ai nostri giorni.

La cosiddetta scienza d’allora, a cui presta il volto e la voce Luca Ward nella Biblioteca Cencelli di Santa Maria della Pietà a Roma, considerava l’omosessuale come “un anormale” che “tale essendo cade sotto la giurisdizione del medico”. “Tuttavia sul terreno dell’omosessualità – continua un manuale di endocrinologia del 1940 – può sorgere la delinquenza: la ragione principale è l’inadattamento dell’individuo all’ambiente”.

Il film non ha tabù né censure. Dalle immagini di pagine ingiallite dal tempo a quelle dei bagni pubblici di Torino, dai racconti dei buchi nei vespasiani alle inevitabili proteste di chi restava fuori e non poteva rimorchiare, il racconto continua documentando la vita negli affollati cinema delle grandi città italiane (“luoghi fatti apposta per dimenticare e dimenticarsi”) con gustosi aneddoti tramandati da chi era giovane in quegli anni e ricorda, ad esempio, quanto fosse “facile di domenica incontrare un’amicizia del genere che poteva durare anche nel tempo”. Ma anche quanto fosse facile cadere nelle trappole di “deliquenti e criminali che adescavano i più ingenui, i timorati, mostrandosi disponibili e poi li ricattavano”.

A contestualizzare queste vite, a volte sentimentali a volte sfacciate, si alternano storici ed esperti di cultura gay e lesbica tra cui Gianni Rossi Barilli, Francesco Gnerre, Giovanni Dall’Orto e Margherita Giacobino: ne esce fuori un discorso corale, autorevole, che aiuta a riconoscere quella “tradizione degli oppressi”, i vinti della Storia, gli eroi negati eclissati nell’oblio.

“La memoria delle precedenti relazioni di omosessuali veniva sistematicamente cancellata da loro stessi e dal sistema” – spiega Rossi Barilli. “Ognuno viveva l’omosessualità per conto suo, non c’era l’idea di una comunità” ricorda Gnerre, che parla della rappresentazione che fa Aldo Palazzeschi, dell’amore “pederastico” di Sandro Penna, della sensualità della gioventù dannunziana di Giovanni Comisso e dei marinai di Filippo de Pisis “che portano in giro un pezzo di cielo e di mare sempre azzurro”.

E le donne lesbiche? “Il fascismo – spiega Dall’Orto – le perseguita in quanto donne”: esse non vengono messe nelle condizioni di poter amare liberamente un’altra donna. “Se una donna non può guadagnare quanto un uomo – e questo viene fatto intenzionalmente per impedire che possa mantenersi da sola col proprio lavoro – dovrà per forza restare in casa con i genitori o sposare un uomo”.

“La donna esclusivamente ed energicamente attiva che sdegna il ruolo muliebre sia di fronte all’uomo sia di fronte alla donna amata è quasi sempre un’immorale violenta e dimostra la sua profonda immoralità con indelicatezze, frodi e reati” si legge in un Trattato delle Malattie mentali del 1905. Lo storico Dario Petrosino racconta la “vergine ermafrodita” nelle caricature di Leo Longanesi. Emozionante anche il ricordo di Silvia Mazzoleni, un’insegnante ora in pensione, che parla del suo primo amore “invertito” da bambina negli anni della dittatura.

Il docufilm dedica un ruolo particolare a Capri con le sue “scottature morali”, l’isola che a partire dall’Ottocento acquista la fama di colonia omosessuale. “Ciò si deve alla natura stessa di Capri – spiegano Riccardo Esposito e Ausilia Veneruso delle edizioni La Conchiglia – Nelle sue grotte e nelle sue case tutto poteva accadere lontano dai pettegolezzi”. L’omosessualità femminile si mimetizza così tra i Faraglioni con Romaine Brooks, Renata Borgatti e altre donne straordinarie e pericolose come rivelerà Compton Mackenzie nel suo romanzo Extraordinary Women del 1928.

“Mi chiamarono stramba!” – scrive in quegli anni Radclyffe Hall in una poesia pubblicata postuma nel 1948 e intitolata The Wanton (“La scapestrata”): “Ma cosa potean sapere del tuo sorriso, del tuo parlare, del tuo passo svagato e ondeggiante? […] Mi chiamano scapestrata! Che possono sapere della via che prendemmo e la notte che era, e il senso che tanto giusto fosse abbracciarci là, baciarci laggiù, timorosi di ciò che avremmo là perduto? Oh, confusa io sono, cattiva io sono, e tuttavia così stupendamente lieta io sono!”. A parlare criticamente dell’autrice de Il pozzo della solitudine, in quanto donna che supportava il Duce pur rivendicando la sua “inversione congenita”, è Margherita Giacobino.

Ma è forse una delle lettere ritrovate dai collezionisti Marzio Govoni e Alberto Lenzi in un mercatino dell’usato a rivelare lo spirito del lavoro che Gabriella Romano e Fabrizio Laurenti offrono al pubblico. Gioacchino, un giovane, nel luglio del 1930, come un cronista d’amore confida a un amico la sua avventura con un ragazzo: “Entrambi eravamo felicissimi di trovarci ancora [ma poi] viene l’ora di salutarci. Una forte stretta di mano e poi sale sul predellino per baciarmi. Purtroppo per quanto lui si allunghi e io mi abbassi, le bocche rimangono a un palmo di distanza. Non ricordo con precisione cosa dicevamo, ma so che entrambi ridevamo e ci spingevamo con la faccia protesa. [Sul treno c’era un aviere]. Allora con la naturalezza più ardita, l’aviere scelto mi tiene per le gambe mentre io mi getto con mezzo corpo dal finestrino. Le bocche si uniscono, si attaccano assieme, in un bacio assai diverso dall’usuale: non più sulla guancia, come generalmente accade, ma sulla bocca, si schiacciano, una a destra e una a manca. Due indimenticabili baci”.

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