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Giovanni Dall’Orto senza censure

Conflitti di interesse, giornalismo, politica, nuovi media. Intervista al direttore di Pride, “il mensile gay italiano”, voce critica del movimento.

di , Cassero magazine, luglio-agosto 2006, pp. 4-5

Anima critica e insofferente, un opinion leader del movimento gay non può che parlare in modo chiaro e pungente. “Però ha un caratterino…” – sospirano gli amici. Come si dice: o lo odi, o lo ami. «Non godo certo a creare conflitti, cerco solo di fare bene il mio lavoro di giornalista – che è informare e commentare – senza badare al fatto che ciò mi crei nemici oppure amici. Ovviamente mi creo sia gli uni che gli altri».

Giovanni Dall’Orto è uno che milita dal 1976. È stato per due volte presidente dell’Arcigay di Milano e membro della segreteria nazionale Arcigay.

Poi hai abbandonato il volontariato: perché?
«Il movimento era diventato o un’anticamera di candidature elettorali o l’agenzia di PR di locali commerciali. Si creavano troppi conflitti d’interesse».

Ad esempio?
«Ad esempio non credo proprio che la segreteria nazionale Arcigay, che si è candidata in blocco per l’Ulivo, possa ancora permettersi il lusso di contestare aspramente l’Ulivo quando fa cazzate coi gay. Specie oggi che i politici non vengono più eletti dal popolo, ma nominati dai partiti. A mio parere cariche e candidature dovrebbero essere incompatibili».

Per questo hai lasciato?
«No, ovvio: c’era anche, anzi direi soprattutto, il fatto che quando ho smesso di essere un semplice giornalista gay per fare il direttore non volevo avere ruoli in potenziale conflitto. Cosa faccio: come direttore di giornale mi metto ad applaudire le iniziative che porto avanti come militante gay?».

Cosa ti ha insegnato l’esperienza associativa in relazione al tuo lavoro di giornalista?
«Che il movimento gay sottovaluta l’importanza della cultura gay, e dell’informazione. Ogni volta che c’è un attacco di tipo politico siamo impreparati e affidiamo la risposta a una decina di persone. Che in alcuni casi sono preparate, ma in altri sono solo banali PR, e non i portavoce di un movimento e di un pensiero articolati. Io lo trovo suicida».

Ma l’Arcigay ha un sito e un addetto stampa.
«Però se voglio avere notizie aggiornate, devo visitare Gaynews.it, il sito personale di Franco Grillini. Perché mai questo lavoro deve farlo Franco e non l’Arcigay?».

Quindi per te il mondo gay, contrariamente a quanto si pensi, non ha capito come usare i mezzi di comunicazione di massa.
«Ovvio, a parte qualche caso come quello di Franco. Lo dimostra anche il fatto che manca un’azione di lobbying sui giornalisti etero che scrivono stupidaggini. Quando provammo a farlo, a Milano, ci fu perfino chi si scusò con noi. Altri caddero dalle nuvole: nessuno aveva mai detto loro che era sbagliato scrivere “squallido sottobosco degli invertiti”. Appunto!».

Come in occasione del Gay Pride? L’immagine rappresentata dai media è sempre la stessa…
«Dieci prostitute brasiliane, “vestite” con un filo interdentale! Io rispetto loro e il loro mestiere, però ne faccio un altro, e vorrei contare anche io. “Qualcuno” dovrebbe spiegare ai giornali che presentare sempre e solo quelle dieci persone è falsificare l’informazione. Ma quel “qualcuno” non intende essere il movimento gay, a quanto pare…».

Qual è il valore aggiunto di un giornale gay scritto da gay?
«Non conosco alcun giornale gay scritto da etero che funzioni. Se cerchi di fare un giornale che sia voce e interprete del mondo LGBT, devi farne parte. Credo che gli etero, in fondo, non si rendano conto di cosa significhi essere gay. Tant’è che nel periodo in cui Babilonia l’hanno scritta gli etero, la differenza s’era vista immediatamente. Detto ciò, qualche etero collabora anche a Pride. Ma gli etero non sono la maggioranza dei miei collaboratori, ed è così che deve essere».

Non sono convinto di questo.
«Immaginati un giornale cattolico scritto da atei: come mai nessuno ne fa? Ci sarà pure un motivo. Gli etero spesso non capiscono quale aspetto, in una notizia, possa attirare l’attenzione d’un lettore gay. Non è che siano scemi: semplicemente non conoscono quello di cui stanno parlando e spesso neppure lo capiscono. Il che, se mi permetti, nel giornalismo è un po’ grave…».

Sei stato direttore del mensile Babilonia, adesso dirigi Pride. Quanto è precario il lavoro di un direttore di un mensile gay?
«Totalmente. Il mondo gay dell’informazione non ti dà lavoro regolare, soldi o prestigio. Non c’è una sola persona che lavori per una qualunque testata gay e sia in regola. Lettori e inserzionisti sono convinti che se sei gay e fai il giornalista, devi farlo con la massima professionalità (quindi a tempo pieno), però devi farlo gratis. Il motivo mi sfugge, ma è così».

Cosa pensi della rivista Cassero?
«Ben fatta, ma soffre, come tutto il movimento italiano, di un conflitto d’interessi, che le tarpa le ali. Da un lato è un house organ, come lo è anche Aut, e quindi è tenuta a fornire informazioni e riflessioni sulle iniziative del circolo, e credo lo faccia in modo puntuale. Dall’altro ha però l’ambizione di raccontare il mondo gay alla nazione. Ma per farlo, visto che la nazione è grande, hai bisogno di soldi, hai bisogno di sponsor per finanziare il giornale».

Giusto.
«E secondo te è possibile ospitare sulle pagine del Cassero pubblicità di locali o iniziative politiche concorrenti a quella del circolo e del locale?».

Conflitto d’interesse.
«Sì; però non facciamone un caso singolo, per favore. Il problema è nazionale: da Milano a Roma a Lampedusa. Siamo cresciuti, ma invece di compiacercene, continuiamo a fingere che ciò non sia accaduto e fingiamo di essere ancora piccoli e spartani. Alcuni circoli, nati come associazioni culturali di volontariato, hanno smesso di esserlo da moltissimi anni, sono vere holding commerciali, ma continuano a comportarsi come se fossero gruppi politici di volontariato. Da ciò deriva l’impossibilità di avere rapporti chiari fra quello che è commercio e quello che è politica. Ora, io non ho assolutamente nulla contro il commercio, figurati: io vivo dirigendo una rivista commerciale! Tuttavia ho molto contro il commercio camuffato da politica, e contro la politica camuffata da commercio. Non ho militato per trent’anni per avere i berluschini padroni del mondo politico gay, e invece oggi corriamo questo rischio, se non risolveremo il problema dei conflitti d’interesse. Siamo ancora ampiamente in tempo per risolverlo, però dovremmo almeno iniziare a porci il problema. Ora».

Dimmi cosa non dovrebbe mancare in una rivista gay?
«Un linguaggio comprensibile. Le riviste del movimento sono troppo spesso autoreferenziali e scritte in un gergo noto solo a loro stesse. Per me il giornalismo è: scrivere per informare facendosi capire da chi ci legge. Il resto è contorno».

Cosa leggono gli omosessuali oggi?
«C’è un’idea idiota per cui i gay pensano solo a cremine, vestine & c. Ora, è vero: i gay pensano anche a queste cose! Ma sono persone che hanno anche un datore di lavoro, fanno la spesa, prendono il treno, hanno un cervello e lo usano. I gay vogliono quindi leggere dei loro problemi, che cambiano continuamente. Per esempio: la questione della coppia e dell’affettività è molto sentita oggi, rispetto a quanto non fosse trent’anni fa. Quando ne parlo, i lettori “rispondono” più che se parlassi di cremine. Di cremine infatti parla anche Vogue, e pure bene; di coppie gay, solo noi».

Hai collaborato con varie riviste, fra le altre Panorama: che differenza c’è tra comunicare la comunità gay attraverso un media generalista e un media dichiaratamente gay?
«Sui media gay non devi spiegare prima ogni volta di cosa stai parlando, sui media generalisti sì».

Che rapporti hai coi colleghi della stampa generalista?
«Inesistenti. Se lavori per i gay, sei automaticamente di serie B, anzi Z: non esisti. Quando un collega etero vuole lodare il mio giornale mi tocca sentire sempre la stessa frase: “Ah! Però! Ma… è bello, è fatto bene!”. Come dire: “Mi avevi detto che era gay… e invece è proprio un vero giornale!”. Non ne faccio una malattia, non me lo ha imposto il medico di fare il giornalista gay, però dopo trent’anni di professione un minimo di rispetto per il mio lavoro forse potrei meritarlo. Eppure mi accorgo che anche i gay hanno l’idea per cui se lavori per un giornale gay è solo perché non eri abbastanza bravo per lavorare per quelli etero. Quindi non butto la croce addosso ai colleghi etero: i primi ad avere pregiudizi sul nostro lavoro sono i gay».

Collabori anche a Wikipedia, un’enciclopedia libera on line: in che modo possiamo utilizzare gli strumenti telematici per essere più incisivi nella realtà quotidiana?
«Wikipedia, sottovalutato dai gay, è uno dei dieci siti più visitati al mondo. Sto pregando singoli e associazioni di scrivere le voci relative per il Progetto omosessualità di Wikipedia, ma fatico a far capire che avere una voce in uno dei dieci siti più usati al mondo può essere utile. Sai che mi rispondono? “Va bè, scrivicela tu”. Ma se imparassimo una buona volta a usarli, ‘sti mass media?».

Recentemente alcuni media (Gay.tv, Gay.it e Clubbing) hanno puntato sulle partnership.
«Aggiungici pure Gaynews.it, che è ospitato da Gay.it. I proprietari di questi media si sono alleati per creare un cartello dell’informazione che avesse un maggiore potere contrattuale con il mercato. Commercialmente parlando, un’ottima mossa, a mio parere. Questo fatto ha però anche una ricaduta politica, dato che un cartello ha più chances di rendere le associazioni omosessuali italiane più malleabili verso le iniziative commerciali e le aziende che hanno creato il cartello. Vedremo questa ricaduta quale sarà».

Un’ultima domanda: perché la tua passione per la storia omosessuale?
«Il passato ci serve a capire il presente, il motivo per cui siamo come siamo. La storia non è altro che il giornale di oggi… letto domani. Come ha scritto William Faulkner: il passato non è morto. Non è nemmeno passato».

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