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Io e le altre

Una sentita e appassionata contro-inchiesta sul lesbismo “politicamente scorretto”, oltre le copertine patinate e l’ingenuo tentativo di rimozione. Le lesbiche ci sono e si raccontano.

di , Babilonia, n. 229, marzo 2004, pp. 44-45

[nota del 2006: questo è solo un estratto dell’intervista edita originariamente da Babilonia]


Con un comunicato che segnala la nascita, in Rete, della sua rubrica Borderline, conosciamo Cinzia Ricci, lucchese, classe 1964. «È l’esigenza di dar voce al lesbismo sommerso, raccontare esistenze taciute, negate, impopolari, altrimenti destinate all’oblio. Esperienze talvolta durissime e toccanti di lesbiche che non possono mostrarsi, dire il proprio nome, che vivono nell’ombra rinunciando ogni giorno a quelli che dovrebbero essere dei diritti e che, invece, sono solo privilegi. Donne sole o isolate, vessate o pacificate, silenziosamente in guerra o arrese, che non vanno in Tv, non si fanno fotografare, non sono intervistate dai grandi media, che vivono il loro lesbismo nella solitudine, con scelte pagate a prezzi carissimi. Attraverso Borderline vorrei dimostrare agli omofobi e a chi discrimina (anche fra gli omosessuali e le lesbiche) che non è lo status sociale che rende migliori, meritori, che la vita – quella ai margini, irrisa, deprecata – sbugiarda e vince le imposizioni culturali e morali, alla fine nobilita e giustifica anche la loro».

Una foto la ritrae bambina tra i banchi di scuola. Ci clicchiamo su e, inaspettatamente, visualizziamo Cinzia com’è ora, in un’immagine che è un’altra creazione grafica, come tante altre che ritroviamo nel suo sito personale. E Cinzia (...) finalmente è nata online. Ci porta con mano nel suo mondo che è essenzialmente arte tra pittura, fotografia, scritti, poesie, tempo libero, vita. Ci dà l’opportunità di scoprire il suo passato…

«Ero una bambina molto riflessiva, schiva, silenziosa, vergognosa, timorosa… Passavo le notti sveglia per poter intervenire nel caso mio padre picchiasse mia madre. Ovviamente il giorno dopo non ero molto reattiva, attenta, arrivavo sempre ultima in tutto, non riuscivo a memorizzare, ad appassionarmi (...) Avevo una compagna di banco davvero speciale: mi trattava con dolcezza, non ne avevo paura, la guardavo giocare e m’incantavo ad ascoltarne i racconti, mi perdevo nei suoi impenetrabili silenzi, ma non studiava, ne le interessava quello che le accadeva intorno. Non era matta, aveva soltanto una situazione familiare terribile, voleva solo essere lasciata in pace. La maestra si accanì contro di lei e tanto fece che convinse i suoi genitori a mandarla in una scuola per bambini “difettati”. Poi toccò a me, ma le minacce di mio padre la indussero a non insistere. Da allora non passò giorno senza che dimostrasse a me, ai miei compagni e alla mia famiglia quanto ero stupida, inadeguata: riempiva la mia pagella di voti improbabili (i due e i tre cominciarono a diventare un’abitudine), il diario di note pretendendo che fosse mio padre a firmarle e, siccome ero assente spessissimo, al mio rientro amava interrogarmi sulle lezioni che avevo saltato. Dopo avermi procurato un bel blocco emotivo ed espressivo schernendomi ferocemente di fronte alla classe perché, pur essendo secondo lei pressoché analfabeta, ero evidentemente tanto presuntuosa da pensare di poter scrivere poesie, all’esame di quinta mi diede il colpo di grazia rimandandomi a settembre. Presi tante di quelle botte per tutto questo (...) Aspettavo di diventare grande per potermi finalmente appropriare della mia vita, proseguire gli studi e affrancarmi, recuperare il tempo perduto, ma a quattordici anni mi ritrovai sulle spalle tutta la famiglia e dovetti immediatamente cominciare a lavorare per sopravvivere, non morire di fame…»


L’esperienza personale diventa così una testimonianza di visibilità e coraggio che invita le donne a riconoscersi persone libere. L’auspicio, carissime, forse è questo: che le lesbiche non perdano l’occasione di guardare oltre il burqa che indossano ogni giorno…

«Sì, un po’ di coraggio ci vuole perché il mondo non è tenero con chi non si adegua: il rischio è l’isolamento, una lenta morte civile. La regola è il silenzio o un gran chiacchiericcio riempito di luoghi comuni. Fingere, è questo che insegnano! Ma non è così che si costruisce una società migliore. Non così si formano cittadini più consapevoli e responsabili ma forse è proprio questo che si vuole evitare… Non è nascondendosi o sostenendo chi promuove le politiche discriminatorie tout court che si ottiene il diritto all’esistenza, ad una vita relativamente e illusoriamente tranquilla. Gli italiani hanno una gran fantasia e, per definire la sciocca abitudine di mostrarsi e chiedere il riconoscimento di pari diritti e opportunità, hanno coniato un termine nuovo che la dice lunga sul pensiero maggioritario: omostentazione. Orribile ed eloquente. Ecco cosa ci è chiesto: di rimanere nell’ombra, silenziosi, passivi, persino grati perché, in fondo, nessuno vuole eliminarci fisicamente. La comunità GLBTT è degna di considerazione e rispetto solo quando si tratta di approfittarne a fini elettorali, commerciali, culturali, esattoriali. Solo un popolo di scimuniti può accettare strumentalizzazioni tanto gravi».

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