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La Messa di Pasquale

Il sermone natalizio che il giovane gay Pasquale Quaranta ha tenuto nella chiesa di Rignano Garganico (Puglia) ha suscitato, prevedibilmente, commenti variegati…

di , Pride, febbraio 2004, n. 56

Il sermone natalizio che il giovane gay Pasquale Quaranta ha tenuto nella chiesa di Rignano Garganico (Puglia) ha suscitato, prevedibilmente, commenti variegati. Le reazioni sono state in maggioranza positive, ma non sono mancati i rilievi negativi. C’è stato infatti chi s’è lanciato in paternali, lamentando che si sarebbe dovuto parlare d’omosessualità con più “competenza” (di chi? Di chi gay non è?). Il suo scopo? Spostare l’attenzione dal problema e rinviarne la soluzione a un “mai”... perché, se non vi fosse stato Pasquale, chi avrebbe mai posto un problema simile nella Chiesa? Soltanto le tiritere di condanne già codificate del papa e da Ratzinger, che non sanno quanto le condanne pesino sulle persone in carne e ossa. E in “carne e ossa” è apparso Pasquale sull’altare di quella chiesa, per svegliare coloro che guardando al bambino di gesso e al prete paludato dai sacri arredi, potevano pensare che il Natale era tutto lì. Tra il gesso e i ricami dorati. Don Fabrizio (il parroco di Rignano) e Pasquale hanno rotto l’incanto del gesso di Gesù bambino e degli ornamenti.

Questa Chiesa vuole inglobare oggi Magistero e profezia, cosa che non è affatto possibile… Lo sapeva bene l’originaria comunità apostolica, tradita poi nei secoli. Dicevo qualche giorno fa proprio a Pasquale: «Quando fai una cosa profetica e giusta, vedrai che gli altri, quelli che Giovanni XXIII chiamava “i profeti di sventura”, vengono fuori tutti, tutti a far distinguo sulla sede, sull’esibizione, sulle opportunità...». Sono i vessilliferi del “pensiero comune”, quelli incollati alle tradizioni: non fa nulla se le loro tradizioni han trasmesso pregiudizi, ignoranze ataviche, approssimazioni e convenzioni oppressive. Loro reggono il “senso comune”, sono i custodi dell’omologazione e della “normalità”. Non fa nulla se questa presunta “normalità” ha fatto soffrire milioni di persone e le ha relegate in un ghetto sociale di esclusioni. Magari tacessero: no, vogliono dire… Non possono inveire – il loro moderatismo non lo consente – allora parlano e, con le migliori premesse, mentre dicono “non sono razzista”, “non ho niente contro Pasquale”, “premetto di rispettare gli omosessuali”, spirano un livore malcelato da ogni riga che scrivono.

E cominciano con la cantilena “non era questa la sede”... Ah già... perché la sede migliore per parlare di apartheid, di discriminazione, non dev’essere una chiesa, non può essere la notte santa di Natale, la stessa notte che ha visto il figlio di Dio costretto a nascere in un tugurio perché rifiutato da tutti a Betlemme: no, il riferimento simbolico a quell’esclusione essi non la vedono proprio. Se avessero letto almeno la riflessione altamente teologica di Pasquale forse avrebbero trovato loro l’opportunità (questa sì) di tacere. E invece no, non l’hanno letta… ma parlano. L’ha letta invece il Vicario episcopale per la pastorale della diocesi di Foggia, il quale afferma che “Tutto ciò che c’è da capire sta in quelle parole di Pasquale”. Lezione teologica, altro che le chiacchiere di Canè della “Gazzetta del Mezzogiorno”, o quelle di Michele Partipilo della “Gazzetta del Sud”.

Il primo è uno che pare esordire bene, ma che va a finire con la solita falsa e sciocca esortazione a “non esibire”, anzi a ringraziare perché, almeno da noi, ai gay non si tirano i sassi (come fanno i musulmani!) né si “cavano gli occhi”. Contento lui… E nemmeno ne esce bene quel Partipilo, con una confusione tra “risse televisive” e una meditazione profondamente teologica e biblica, che lui non ha neppur letto, prevenuto com’è e come si vanta d’essere. Così si mette ad esortare perché di omosessualità si parli con “serietà”... come dire che nella chiesa di Rignano si è forse riso a crepapelle.

E infine dovrei parlare di qualche prete, di provincia, dato che le alte eminenze della Chiesa hanno taciuto: finalmente hanno avuto almeno il pudore del silenzio. Quel frate Ottaviano di Solofra (Avellino) che paragona i gay agli “zoppi”, naturalmente da amare e di cui aver compassione, dovrebbe essere lui a chiedere compassione, prima per la sua ignoranza (dove ha studiato di sessualità, quest’uomo?) e poi per la sua presunzione. Né ha letto l’omelia né conosce qualcosa dell’omosessualità, mentre la Bibbia la conosce molto male: il suo amore è quello di coloro che prima devono fare di una persona una vittima sacrificale per poi provare la pietas. La stessa che invoca anche Don Gigante, da Salerno. E don Miceli di Battipaglia (dove vive Pasquale) parla di “provocazione”, lui che poteva fare nella sua parrocchia quel che altri han dovuto fare lontano, in Puglia, quando invece a Rignano c’è stata una pro-vocazione in senso letterale, cioè nel senso di “agire per chiamar fuori”... per far emergere ciò che la nostra cattiva coscienza ha sepolto nell’oblio. E ovviamente questi preti chiedono il perdono (di cosa, se uno male non ha fatto?). Ma “ai preti (spesso loro stessi omosessuali) non si deve chiedere niente che non sia già stato deciso e codificato, poiché la vita seminariale li ha talmente privati di spirito critico, libertà e autonomia che tutto potete chieder loro fuorché che essi pensino con la loro testa”. Lo diceva Bertrand Russel. I soloni del moderatismo (tanti anche tra i laici) vedono sempre “esibizionismo” o “provocazioni” ovunque si parli di gay e di lesbiche. Un atteggiamento che suona come quello di chi oggi accusasse un nero di “esibire” il suo colore, che disturba quello dei bianchi. Ci dicano lorsignori: cosa dovremmo fare per non disturbarli col nostro “esibizionismo”? Nasconderci… o morire?

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Questo articolo è stato pubblicato in "Pride", n. 56, febbraio 2004 © clubclassic.net

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