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Per un linguaggio inclusivo

La lingua italiana rispettosa dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale. L’uso del linguaggio sessuato nella formazione, nella comunicazione, nell’editoria per combattere gli stereotipi.

di , sferalab.blogspot.com, 19 febbraio 2008

«Zitte, zitti», oppure «attente/i», ecco: «brav*».

C’è chi accorda le parole al femminile e al maschile, chi mette uno slash e tiene conto dell’ordine alfabetico, chi utilizza un asterisco finale. Parliamo della lingua italiana rispettosa dell’identità di genere, di un linguaggio inclusivo della soggettività femminile.

Tutto ciò vi sembra pedante? «Scusate se esistiamo» – rispondono le donne. Il punto è che ciò che non si dice, non esiste.

Da ottobre 2007 fino a marzo 2008 se ne discute all’Università Roma Tre, all’interno del corso di formazione trasversale finanziato dalla Regione Lazio “Il genere tra le righe: gli stereotipi nei testi e nei media”. Le lezioni riguardano l’uso del linguaggio sessuato nella formazione, nella comunicazione, nell’editoria, al fine di «combattere i pregiudizi che condizionano la vita di donne e uomini».

La novità dalla Gran Bretagna

Ma cosa succede se oltre all’identità di genere si tiene conto dell’orientamento sessuale?

Succede, come è stato proposto in Gran Bretagna dall’associazione “Stonewall”, che nelle scuole elementari invece di usare l’espressione «mamma e papà» si utilizzi l’espressione neutra «genitori», specialmente nelle comunicazioni a casa. Questo per abituare i bambini e le bambine all’idea che ci potrebbero essere genitori dello stesso sesso (per l’Italia vedi Famiglie Arcobaleno). Gli insegnanti e le insegnanti inglesi dovranno parlare anche di unioni civili e di diritti sulle adozioni omosex. Tra le espressioni bandite dalle scuole britanniche ci sono anche: «comportati da uomo» e «siete un branco di donnicciole» per limitare il bullismo tra i banchi di scuola.

Il problema omofobia

Nel romanzo “Il giardino dei Finzi-Contini” Giorgio Bassani scrive:


«Una delle forme più odiose di antisemitismo era appunto questa: lamentare che gli ebrei non fossero abbastanza come gli altri, e poi, viceversa, constatata la loro pressoché totale assimilazione all’ambiente circostante, lamentare che fossero tali e quali come gli altri, nemmeno un poco diversi dalla media comune».

Subire la discriminazione, in quanto persone omosessuali, ci accomuna a ebrei, donne, extracomunitari, e a tutte quelle compagini sociali che rappresentano una minoranza non assimilabile alla rappresentazione del cittadino medio.

Francesco Gnerre, docente di Studi culturali e studi gay all’Università di Roma Tor Vergata, propone di ribaltare i discorsi: «Il problema delle donne non è un problema delle donne, ma un problema di misoginia; il problema dei neri non è un problema dei neri, ma di razzismo; il problema degli ebrei non è un problema degli ebrei, ma di antisemitismo; il problema degli extracomunitari non è un problema degli extracomunitari, ma di xenofobia. Il problema delle persone omosessuali? Si chiama omofobia».

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