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Perché al Sud i gay sono eroi per forza

Gli omosessuali, al Sud, vivono con la morte nel cuore… Le storie di Natalino e Rignano.

di , La Gazzetta del Mezzogiorno, 30 dicembre 2003

Tutti gli italiani si sono commossi quando hanno appreso che un barbone pugliese di Massafra, Natalino Morea, classe 1946, aveva salvato quattro ragazze pugliesi dall’aggressione di due bulli della periferia di Roma. La solita retorica buonista aveva tirato fuori il peggio della nostra ridicola voglia di eroi: servizi in televisione, chiavi in mano di una piccola casa alla periferia di Roma, editoriali zuccherosi di scrittori malati d’irrealtà e sempre alla ricerca di un briciolo di realtà «verista», giusto per sentirsi abitanti sani del proprio tempo.

Anche le signore spettatrici dei programmi televisivi del pomeriggio avranno versato una lacrima, magari bisbigliando: «Nel petto dei barboni c’è un cuore grande come una casa». Peccato che i clochard come Morea, a Roma e in tutta Italia, vengano trattati come untori, come rifiuti tossici della nostra evoluta società. E peccato, soprattutto, che pochi abbiano ricordato che quel clochard da Massafra, nel 1977, fu letteralmente costretto a fare fagotto. Destinazione: Milano. Causa della fuga: omosessualità. Natalino Morea fu ferito e umiliato dal suo paese perché, oggi come ieri, essere «ricchione» è una vergogna, soprattutto al Sud dove, per essere accettati bisogna mostrarsi maschi, virili e bestie da caserma, salvo poi ingozzarsi di Viagra e di cassette porno.

In Puglia, la notte di Natale, come si sa è accaduto un fatto da prima pagina. A Rignano Garganico, in provincia di Foggia, durante la messa di mezzanotte, il parroco della piccola comunità garganica, don Fabrizio Longhi, ha ceduto il pulpito a un ragazzo di ventuno anni, Pasquale Quaranta, il quale coraggiosamente ha parlato della sua omosessualità, del suo essere gay e, allo stesso tempo, credente. Ha detto Quaranta: «L’omosessualità non è una malattia, non è perversione, né trasgressione, né moda e – la cosa che mi preme sottolineare ora – non è peccato. Si tratta di un dono di Dio che, in quanto tale, non è scelto e che ci si trova a vivere».

So con certezza che – al di là del discutibile sistema spettacolare adottato dal parroco – la cosa significa molto in termini di evoluzione sociale, di caduta di ridicoli tabù, di liberazione culturale. Tante, troppe persone, considerano l’omosessualità una iattura, una malattia. Nella nostra civile società si sente dire: «Meglio morto che frocio». Ecco, questo si dice, e sarebbe ora che anche il nostro Sud la smettesse di ghettizzare gli omosessuali, di mandarli nelle metropoli, magari sotto ai ponti. I peggiori omofobi, poi, sono gli stessi che si sono commossi davanti a «Verissimo» quando si è parlato dell’eroismo di Natalino Morea.

Gli omosessuali, al Sud, vivono con la morte nel cuore. Il nipote di Morea raccontava che lo zio, quando era ragazzo, prima di partire, era costretto ad andare con gli amici «a prostitute»; ovviamente non «consumava», però pagava ugualmente, affinché le prostitute tenessero ben custodito quel suo segreto. Quanti ragazzi gay sono costretti ad ammiccare brutalmente quando passa una bella donna per strada? Quante ragazze omosessuali devono sentirsi dire dalle madri petulanti: «Fatti una famiglia! Solo tu non ce l’hai un fidanzato»?

Gli omosessuali meridionali rimediano come possono: vanno nelle grandi città, vanno nei locali gay, vanno sulle chat (le chiacchiere via computer), creano piccole oasi-ghetto, più spesso sprofondano in un’introversione senza fine, fatta di angosce, di riti solitari davanti allo specchio, magari quando tutti dormono. Nelle città del Nord il dolore è meno forte, perché la città nasconde, crea piccole uscite di sicurezza. Però nei piccoli paesi del Sud cosa succede? Succede che ci si sente sbagliati, fuori posto, sempre in all’erta quando si parla di omosessualità.

Conosco molti omosessuali che non si sono mai dichiarati alla comunità. L’omelia di Pasquale Quaranta, discussa e discutibile perché avvenuta in una chiesa, potrebbe essere un evento battistrada. Soprattutto noi giovani possiamo fare molto per cambiare la mentalità «machista» del Sud. Essere omosessuali non è una sfortuna, né una malattia, né una condanna all’infelicità. È uno dei tanti modi di essere persone su questa Terra.

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