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Priscilla, il cult al cinema: iconografia e sfida ai luoghi comuni

Cosa ha rappresentato per le persone transessuali, cosa ha sfatato e cosa resta del road movie di Stephan Elliott del 1994

di , Repubblica.it, 10 gennaio 2019

Priscilla è il nome dato a un bus in un grande classico del drag ma nell’immaginario collettivo è diventato sinonimo di drag queen per antonomasia, dell’artista omosessuale o transessuale che si esibisce favolosamente cantando in abiti femminili.

“Il film nel 1994 sdoganò le drag queen non solo in Italia ma nel mondo – spiega Fabio Bo, critico cinematografico e storico selezionatore di film per la Biennale di Venezia e per il Festival del cinema gay di Torino – per la prima volta le drag uscivano da un’inquadratura che le imprigionava in un sottoscala o in un pub-cabaret per raggiungere grandi spazi aperti come il deserto australiano e muoversi in libertà, simbolicamente saltando fuori dall’armadio con tutta la gioia di appartenersi”.

Un coming out che è figlio dei tempi. “Priscilla rende le drag queen creature popolari – continua Bo – in un momento storico in cui il cinema gay era nel pieno del suo sviluppo ma che tuttavia non rappresentava anche quella realtà. Mentre negli anni Novanta morivamo di Aids, Priscilla celebrava la vita con spensieratezza cercando di portarci oltre il buio drammatico del tunnel che la comunità lgbt stava attraversando”.

La commedia cult diretta da Stephan Elliott, premio Oscar per i migliori costumi, fu inizialmente stroncata dalla critica militante che, come per Il vizietto di Édouard Molinaro, accusò il regista di frivolezza, di aver messo in scena una macchietta. Le tre drag queen a bordo dell’iconico torpedone rosa invece, come per la commedia con Ugo Tognazzi e Michel Serrault, spazzano via gli stereotipi in un modo speciale.

“Stiamo parlando di una pietra miliare del mondo gay, trans e drag – osserva Porpora Marcasciano del Movimento d’identità transessuale – nel film c’è varietà di genere, ci sono infatti due persone gay (Adam-Felicia e Tick-Mitzi) e una transessuale (Bernadette) che sfatano i luoghi comuni senza rinunciarvi ma riappropriandosene: i protagonisti sono infatti orgogliosi dei propri lustrini e attraverso la loro favolosità ci conducono nella cosiddetta normalità”.

In questo modo l’anormalità, che il pregiudizio attribuisce alle persone omosessuali e transessuali, nel film diventa familiare e rassicurante: “Per assurdo – continua Marcasciano – tutta l’esuberanza, la provocazione, il delirio trans e gay è raccontato con un’umanità vicina sia al nostro vissuto sia a quello del grande pubblico, umanità fatta di legami forti in cui ognuno riscopre se stesso, dal rapporto con un figlio perduto e poi ritrovato, come per Tick, all’amore, come accade a Bernadette”.

Priscilla è anche una metafora. “L’autobus rosa nel deserto può simboleggiare una persona che si muove in un mondo piatto con tutti i suoi colori. La scena di Felicia che canta l’aria della Traviata con la voce di Maria Callas sul tetto dell’autobus è divina, la colonna sonora del mondo lgbt” afferma Marcasciano.

“Esteticamente il film è smagliante – aggiunge Fabio Bo – non è un kolossal patinato di Hollywood ma è fatto in casa proprio nello spirito delle drag queen che producono da sole i propri abiti. È un film indipendente considerato erroneamente kitsch mentre in realtà è pop-camp, semplice nella struttura narrativa eppure niente affatto banale”.

Da un punto di vista linguistico le parole non sono infatti futili come potrebbero apparire. Il film rappresenta il gergo lgbt e non mancano riflessioni in cui ogni adolescente omosessuale o transessuale può rispecchiarsi.

Toccante è la scena in cui Bernadette, dopo aver difeso Felicia da un’aggressione omofoba, pensa ad alta voce: “È strano, noi ce ne stiamo qui incuranti a prendercela con quella orrenda fogna che è la grande città. Ma in un suo strano modo è proprio lei che ci protegge. Non lo so se quell’orribile muro dei sobborghi è stato innalzato per impedire a loro di entrare o a noi di uscire”.

“E a ripensare a Terence Stamp nei panni di Bernadette, così alta, così fiera e così dignitosa – conclude Bo – viene in mente una somiglianza impressionante con la nostra Karl du Pigné, recentemente scomparsa. Impossibile dimenticarla”.

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