p40.it


sito di Pasquale Quaranta

Sei in: home > dossier > Best 2007 > Questa scuola è da buttare

Questa scuola è da buttare

Via gli insegnanti incapaci. Maggiore severità. Basta con i crediti formativi. Più spazio per le lingue straniere. La ricetta per l’istruzione italiana. Dettata dai giovani della futura classe dirigente.

di , L'espresso, 4 ottobre 2007, pp. 92-94

Vi dice qualcosa il “ritorno all’ordine”? Nell’arte indica il periodo intorno al 1920 in cui la pittura, non solo in Italia, dopo le avanguardie cubiste e futuriste esprime il bisogno di ritrovare equilibrio, armonia, tradizione, una qualche voglia di classico. Ebbene, anche per quanto riguarda la scuola italiana, in pieno 2007, nell’era eccitante delle tre W (wireless, webcam, waffankulo), tira un’arietta di ritorno all’ordine.

Non è solo l’effetto Fioroni, il ministro della Pubblica Istruzione (ridiventata Pubblica, da Istruzione e basta) che auspica il ritorno al nozionismo, tabelline e Pascoli a memoria. Non è solo l’insofferenza crescente tra i liceali che saranno presto precettati al consueto rito d’autunno delle finte occupazioni. Né la souplesse con cui è stata accolta la decisione del preside del liceo di Sanremo di introdurre il badge elettronico per sorvegliare gli ingressi a scuola. È ciò che emerge anche da un’inchiesta effettuata da “L’espresso” tra un campione scelto di futura classe dirigente: 50 neolaureati selezionati in base a curriculum (110 e lode, almeno due lingue straniere) da Best 2007, la scuola estiva della Alma Graduate School dell’Università di Bologna, diretta da Massimo Bergami.

Nella forma di un focus group abbiamo discusso un tema che i media tendono a snobbare: cosa non funziona nella scuola italiana; e come una buona scuola dovrebbe essere. Del campione oltre tre quarti dei laureati, fascia 23-25 anni, provengono dalla scuola pubblica; e praticamente tutti dichiarano che «la rifarebbero».

Una prima sorpresa, dopo un quinquennio in cui la triade tutta nordista Berlusconi-Moratti-Formigoni ha propagandato e rifinanziato la scuola privata, in larga parte confessionale, piegando ad hoc il concetto neutro di sussidiarietà. «Non vedo un modello alternativo», dice Marika Armento (Scienze politiche, Bologna): «Gli insegnanti delle private sono più giovani e inesperti, spesso semplicemente in transito verso gli istituti pubblici».

Un’altra sorpresa è che, dovessero scegliere pistola alla tempia tra una scuola con più controllo ma più efficienza e una scuola con più libertà ma più disordine, in maggioranza sceglierebbero la prima. «Anche se c’è da distinguere tra ordine e controllo», puntualizza Luciana Taddei, laureata in sociologia alla Sapienza.

Terza sorpresa. Il sistema dei debiti formativi (la possibilità per lo studente di far slittare da un anno all’altro l’estinzione del debito, quella che una volta era la “riparazione”) viene bocciato all’unanimità. Il trascinamento per mesi o anni dell’insufficienza nella singola materia, senza l’effetto barriera di un esame secco (o hai recuperato o no) è ritenuto nefasto. Buonismo malriposto. Che cosa vogliono, allora, il ritorno all’esame a ottobre dei tempi andati? Non proprio, ma quasi. Il modello che prevale, nella discussione, è un debito (poniamo un 5 in italiano) da estinguere con un esame a scadenza precisa, alla ripresa dell’anno scolastico successivo, gestito dal proprio insegnante e preceduto da corsi di recupero obbligatori. Non sarà l’esame a ottobre, ma quanto a “rappel à l’ordre” non si scherza affatto.

Altro punto, il nozionismo. Il monito (restaurazione o realismo?) del ministro Fioroni. Qui il nostro focus group si divide. Le posizioni favorevoli sono riassunte da Nadia Panato, vicentina (Architettura, Venezia): «Esercizi di nozionismo sono utili come ginnastica mnemonica, è appurato da chi studia i processi cognitivi». Ironica Luciana Taddei: «Non c’era bisogno del ministro. Non è che oggi manchi, il nozionismo a scuola. Il valore aggiunto non sta nelle tiritere a memoria, ma nel saper collegare con intelligenza nozioni diverse in campi diversi». Il nozionismo accende gli animi. C’è chi liquida l’uscita del ministro come «una dichiarazione puramente politica»; o anche «una stronzata». Qualche assenso, sogghigni. Attenzione: non c’è qualunquismo, o antipolitica, in questi giovani, almeno non ci è parso; c’è un approccio non ideologico, depurato da ogni struttura ideologica.

Inevitabile mettere a bilancio le “Tre I”, lo slogan che fu caro al governo Berlusconi. Sull’inglese, pieno accordo. Come si vede dal questionario distribuito da “L’espresso” tra i partecipanti a Best 2007 una maggior offerta di inglese e lingue straniere figura al secondo posto assoluto tra le urgenze che il governo dovrebbe affrontare in tema istruzione. Tutti loro, e sono ragazzi che hanno soggiornato per studio o volontariato in Inghilterra, Svezia, Germania, persino in Islanda, testimoniano che i giovani italiani sono considerati con gli spagnoli (e davanti solamente ai greci) i più scarsi d’Europa nella padronanza delle lingue straniere.

Francesco Rambelli, emiliano, laureato in Economia a Forlì: «In Finlandia io stesso, che me la cavo bene in inglese, mi sentivo enormemente indietro rispetto agli scandinavi», dice. Molti auspicano l’inglese obbligatorio fin dalla prima elementare. La lingua parlata e ascoltata più della nuda grammatica. C’è chi se la prende con i film doppiati, come usa in Italia. Commenta dotto Pasquale Quaranta, salernitano, Scienze della comunicazione e aspirante giornalista: «Le lingue emergenti sono hindi, mandarino, arabo. In Italia non se ne parla mai. Persino sull’isola di Mauritius sono bilingui, anglo-francesi: c’è un paese africano che è più avanti di noi».

La I di impresa persuade soprattutto i laureati in materie economiche. Far dialogare scuola e impresa, con stage e ospitalità mirate, non dev’essere un tabù, dicono; ma non è che il governo di centrodestra abbia raggiunto chissà quali obiettivi. La terza I, quella di Internet, è trattata con sufficienza, da alcuni con sarcasmo. In sostanza: non c’è uno, tra i neolaureati con cui discutiamo, che ritenga di aver imparato qualcosa in tema computer dai propri volonterosi ma smarriti insegnanti. La sensazione è che già a dieci, dodici anni un ragazzo italiano sappia molto più di Messenger o di Yahoo o di YouTube dell’insegnante delle medie. «Partita persa», dice qualcuno. «Senza utilità», un altro. Insomma, si fa da soli.

Il punto cruciale, alla fine (vedi sempre il questionario qui sopra) sono gli insegnanti. Il ricambio generazionale. La necessità di verificare nel tempo la bontà del loro operato. O di sottoporli a corsi di aggiornamento obbligatori. È anche urgente (questi ragazzi hanno un’anima sociale; ma non erano cinici e consumisti, nel giudizio degli adulti?) riqualificare il prestigio, l’immagine stessa dei prof, pagandoli meglio, per sottrarli alla spirale depressiva del declino sociale e dell’affanno economico.

Furio Gianforme (Economia, Bologna) sostiene che bisogna trovare criteri condivisi per sottoporre a giudizio la capacità didattica dei docenti, un po’ sul modello universitario. Luciana Taddei chiede «un esame periodico di verifica» in due direzioni, la preparazione nelle proprie materie e l’efficacia didattica. Alessia Frisina (Studi orientali, Napoli, parla inglese, francese, spagnolo, cinese, hindi) punta gli insegnanti pigri, demotivati, con la malattia facile e furbetta: «E sfatiamo ‘sto tabù. Il prof assenteista dovrebbe poter essere licenziato». Ridacchiare, cauti assensi. Frena Vincenzo Asarisi (Chimica industriale, Catania): «Senza esagerare. Non sarei per un sistema all’americana, licenziamenti facili e zero garanzie».

Siamo prossimi al libro dei sogni? Forse sì, almeno in parte. Ma soffermiamoci ancora un istante sull’immagine del ritorno all’ordine. A questi giovani brillanti, tutti lanciati nel percorso delle lauree specialistiche, piace l’idea (crociana? deamicisiana?) della scuola come scuola di educazione. Civile, civica. Anche ambientale? Anche ambientale. Dove non arriva la famiglia, è il ragionamento, e la famiglia non sempre arriva, per motivi culturali, di degrado sociale, di povertà, lì la scuola deve sopperire, fin dalle elementari.

Rispetto dell’altro, rispetto del bene e dello spazio pubblico, capacità di ascolto, amore per l’ambiente, pulizia, decoro. No al vandalismo, alla violenza, all’egoismo aggressivo, al fai-da-te anarcoide che caratterizza la pessima Italia di chi salta la coda, non emette scontrino, sporca le città, deride il debole, corrompe o ruba credendo di far bene: sintomi del declino etico che l’Italia va attraversando.

C’è chi si spinge a dire, come il salernitano Quaranta, che ha a cuore le tematiche gay: «Chiedo agli insegnanti un ruolo attivo a difesa degli studenti più esposti a discriminazione, per l’orientamento sessuale, la religione, il passaporto, il colore della pelle».

Coro unanime, infine, sul costo esorbitante dei libri di testo. «Uno scandalo», «un’emergenza culturale», «una vergogna che un governo riformista dovrebbe combattere con forza». Ecco una generazone precipitata da un onesto welfare a pratiche da suk postmoderno: compravendita di libri usati, traffico di dispense, fotocopie, bigini, trattative dure col fratello maggiore, madri riciclatesi in amanuensi del restauro e della cellofanatura. Mentre alle spalle delle famiglie, è la sensazione, un discutibile cartello («accordo limitativo della concorrenza», secondo il dizionario Rizzoli Larousse) di editori scolastici si arricchisce con finte edizioni aggiornate che cambiano di anno in anno per dettagli risibili, o trattati di fisica da 38 euro scritti in linguaggio pretenzioso da prof frustrati per non essere riusciti a insegnare nelle università.

Qual è la sensazione, alla fine di questa nostra inchiesta? Negativa? Al contrario: buona. Di speranza, di gratitudine. Speranza per una generazione che ci auguriamo più esigente, più affidabile, più etica, meno provinciale. Gratitudine verso la Alma Graduate School per averci fatto conoscere dei giovani italiani, e italiane, così in gamba. E un po’ di invidia. Per i loro ventiquattr’anni.

Torna su ^